muro leccese

Il pomeriggio a Muro Leccese ha un suo passo lento, quasi pigro. Il sole scivola sulle facciate color miele, e l’aria profuma di caffè tostato, di pane caldo e di pietra che si scalda sotto la luce. La piazza si anima a piccoli gesti: un anziano che legge il giornale, un bambino che insegue un pallone, due donne che si salutano con un “ciau” cantilenato. Qui, nel basso Salento, il tempo non corre mai davvero.
Ogni angolo racconta qualcosa. Ogni muro, davvero, conserva un frammento di memoria. E non è un modo di dire: è come se la pietra leccese, porosa e viva, avesse assorbito secoli di voci e di passi.

Il muro che dà il nome al paese

“Partiamo dal muro del Muro”, mi dice un uomo con il cappello di paglia, appoggiato alla sua bicicletta. Il sorriso furbo di chi questa frase l’ha detta centinaia di volte.
Poco fuori dal centro abitato, la cinta muraria messapica appare come una ruga bianca nel paesaggio. Le pietre emergono dal terreno, alcune spezzate, altre perfettamente allineate, come se qualcuno le avesse disposte ieri.
Un tempo, queste mura erano alte fino a sette metri e circondavano la città per quattro chilometri. Oggi ne resta solo una parte, ma camminandoci accanto, senti la forza di chi le costruì: mani callose, gesti lenti, pietra su pietra.
C’è chi racconta che il nome “Muro” non venga da “murus”, ma da “moro”, in riferimento ai Saraceni che invasero la zona nel X secolo. Forse è per questo che nello stemma comunale compaiono entrambi — il muro e la testa moresca — due simboli diversi, uniti da una lunga storia condivisa.

Un museo all’aperto tra cicale e vento

A Muro Leccese non esistono barriere tra passato e presente. Il passato è lì, sotto i piedi, e a volte basta chinarsi per vederlo.
Alla località Cunella, dove sorge il Parco archeologico, la terra rossa custodisce tracce dell’antica città messapica: case, necropoli, templi, cerchi di pietra che segnano i confini di un’altra epoca.
Ci arrivi dopo un breve tratto di strada sterrata, e il primo suono che senti è quello delle cicale, insistenti, accompagnate dal fruscio del vento tra gli ulivi. Non ci sono folle, né cancelli; solo te, la pietra e il silenzio.
Camminando, la mente ricostruisce le scene: un artigiano che lavora l’argilla, una donna che attinge acqua, un bambino che corre scalzo. In quei pochi metri di spazio, capisci cosa significa vivere dentro un museo a cielo aperto.

La piazza delle due chiese

Il ritorno in paese è come un cambio di scena: dopo il silenzio del parco, ti accoglie la Piazza del Popolo, ampia e luminosa, dove due chiese si fronteggiano come vecchie rivali.
Da un lato c’è la Chiesa dell’Annunziata, solenne e severa, eretta nel 1693. Il portale barocco apre a un interno denso di tele e stucchi. La pala che più sorprende è la Cacciata dei mercanti dal Tempio di Liborio Riccio: i volti, le mani, la tensione dei corpi sembrano ancora muoversi sotto la luce che entra dalle finestre alte.
Dall’altro lato, più elegante e brillante, sorge la Chiesa dell’Immacolata, con la facciata chiara e la statua di Vito Carluccio che spicca sotto un baldacchino teatrale. È un piccolo trionfo barocco, ma con quel tocco di orgoglio paesano che fa sorridere.
Rimani a osservare, indeciso: la compostezza dell’una o la grazia dell’altra? Forse Muro ti suggerisce che non serve scegliere. La bellezza, qui, sta nel dialogo.

Dentro il Palazzo del Principe

Proprio di fronte, il Palazzo del Principe domina la piazza con il suo profilo elegante. Balconi in ferro battuto, finestre profonde, una facciata che racconta un passato nobile.
Un tempo era castello difensivo, poi residenza feudale dei Protonobilissimo. Oggi ospita il Museo Borgo Terra, dedicato al Medioevo e alla storia locale.
Appena varchi la soglia, senti il fresco della pietra. L’odore è quello dell’umidità antica, mescolato alla cera dei pavimenti. Le sale espongono reperti archeologici, ceramiche, utensili, documenti ingialliti. Ma la parte più suggestiva è nel sottosuolo: le vecchie carceri, dove il tempo si è fermato.
Sulle pareti, graffi, segni, piccole croci, conti dei giorni incisi con la punta di un chiodo. Ti fermi davanti a quelle tracce, e per un attimo ti sembra di sentire il respiro di chi ci è passato prima di te.

Tra corti e simboli nel borgo antico

Alle spalle del palazzo si apre il Borgo Terra, l’angolo più antico del paese. Vicoli stretti, portali bassi, cortili pieni di verde e odore di basilico e pomodori.
Qui si trova un antico frantoio ipogeo del Seicento, scavato nella roccia: la pietra molare è ancora lì, silenziosa, come se potesse riprendere a girare da un momento all’altro.
Poco più avanti, un leone scolpito sorveglia la facciata di una casa: il muso consunto dal tempo, ma lo sguardo fiero. Sui portoni, simboli e motti incisi nella pietra — stelle, serpenti, volti — che raccontano superstizioni e fede popolare.
Uno mi colpisce più di tutti: “Ingens animus sub lare parvo” — un grande animo sotto un piccolo tetto. In poche parole, l’essenza del paese: umile ma profondo, come la sua gente.

Via Salentina: la strada dei pozzi e delle corti

Proseguendo verso la parte più recente, via Salentina si apre come un racconto domestico.
Le tende bianche svolazzano ai balconi, e l’odore del sugo invade la strada. Ogni casa ha un portone diverso, intagliato o scolorito, ma con la stessa dignità.
Molte corti nascondono ancora pozzi antichi, segni di una falda che scorre sotto il paese. Ogni tanto ti fermi, guardi dentro, vedi solo buio e senti l’eco dell’acqua lontana.
A Corte Carluccio, grappoli di pomodori appesi a penna pendono dalle travi come amuleti rossi. Se capita che il proprietario sia fuori casa, ti saluta e ti invita a entrare. In Salento, la soglia di casa è un confine sottile, attraversato spesso con un sorriso e un bicchiere di vino.

La chiesetta bizantina: Santa Marina

Lasci il centro e segui una strada sterrata tra gli ulivi. Dopo qualche curva, appare la Chiesa di Santa Marina, minuscola, raccolta, costruita nel X secolo.
Le sue pietre provengono proprio dalle antiche mura messapiche: un modo per riutilizzare, ma anche per tramandare. Dentro, gli affreschi bizantini si intravedono appena, consumati dal tempo, ma ancora vibranti di colore: volti ovali, mani sottili, aureole dorate che resistono alla luce.
Fuori, tra l’erba, si distinguono tombe scavate nella roccia, orientate verso il sole. Mi siedo sul muretto e resto in silenzio. L’aria sa di timo e di terra, e da lontano arriva il rumore di un trattore.
È uno di quei momenti in cui la storia non ti parla: ti ascolta.

Il parco del Crocefisso: respiro verde del paese

Prima di lasciare Muro, mi fermo al Parco del Crocefisso, appena fuori dal centro. Dopo tanto camminare tra pietre e vicoli, questo spazio verde è come una pausa.
Le famiglie si siedono all’ombra, i bambini corrono tra gli alberi, un gruppo di anziani gioca a carte vicino al chiosco. Il vento muove l’erba tagliata e porta con sé l’odore dolce della resina.
C’è anche una piccola chiesetta, semplice e luminosa, dove la porta resta sempre socchiusa. Mi affaccio: dentro, solo silenzio e il fruscio di una candela accesa.

Dove fermarsi a mangiare

A Muro Leccese si mangia bene, e spesso si mangia come a casa.
In piazza del Popolo, il Caffè Miron è il punto d’incontro del paese: tavolini all’aperto, chiacchiere in dialetto, pucce calde appena sfornate e paste di mandorla che profumano di festa. Il latte di mandorla arriva freddo, servito con ghiaccio e un sorriso.
Quando cala la sera, vale la pena fermarsi da Nonna Rosa, una trattoria poco distante. Il pesce è freschissimo — spesso pescato la mattina — e il vino bianco è quello dei vigneti vicini. Nessuna scenografia, solo piatti veri: ciceri e tria, alici marinate, seppie alla pignata. Il tutto condito da una gentilezza che ti fa sentire parte della famiglia.

Un ultimo sguardo

Quando lascio Muro Leccese, il sole scende dietro i tetti e le campane cominciano a suonare.
Cammino piano verso l’auto, passo dopo passo, mentre il cielo si tinge di rosa e arancio. Mi volto ancora una volta: le pietre sembrano accendersi, le tende si muovono al vento, un cane abbaia in lontananza.
C’è una luce che non si dimentica e una calma che resta dentro.
Muro Leccese non è un luogo che visiti. È un luogo che ti accompagna — come la polvere chiara sulle mani che ti resta addosso dopo aver toccato la sua storia.

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